L’osteoporosi è uno dei problemi più grandi, e allo stesso tempo sottovalutati, dei nostri tempi. Le attuali statistiche ci dicono che nel mondo una donna su tre e un uomo su cinque sono destinati a subire almeno una frattura dopo i cinquant’anni, ma questo numero è destinato a crescere negli anni a venire più di quanto non sia accaduto in passato, anche per l’invecchiamento della popolazione. Per cercare di capire cosa ci aspetta nel prossimo futuro, e con la speranza che ciò ci convinca finalmente ad adottare misure efficaci per arginare il fenomeno, la IOF (International Osteoporosis Foundation) ha elaborato un Report che sarà presentato il prossimo ottobre, in occasione della Giornata Mondiale dell’Osteoporosi. Questo studio internazionale, condotto dai maggiori specialisti mondiali del settore, pone a confronto l’Italia con gli altri cinque maggiori Paesi d’Europa (Francia, Spagna, UK, Svezia, Germania) relativamente alla situazione delle fratture da fragilità, fotografando il momento attuale, ma soprattutto confrontando le stime di quale sarà l’incidenza negli anni a venire.
UN SOS PER IL FUTURO
L’impressionante numero odierno di una frattura ogni tre secondi nel mondo – con un costo, solo in Italia, di più di 9 miliardi di euro l’anno –, non è che l’inizio: le fratture da fragilità ossea in Europa stanno vertiginosamente aumentando, molto più di quanto stia crescendo l’aspettativa di vita.
In particolare in Italia le fratture maggiori da osteoporosi passeranno da 560.000 nel 2017 a 690.000 nel 2030, con un aumento del 22,4%. I costi annuali di queste fratture imporranno dunque un notevole aggravio al nostro sistema sanitario. Raffrontando i dati relativi all’Italia con quelli degli altri Paesi, vediamo che, anche se l’incremento percentuale previsto da noi non raggiungerà l’entità attesa per altri Paesi europei (come ad esempio la Gran Bretagna, la Spagna e la Svezia), il risultato sarà comunque preoccupantemente alto perché occorre tener conto che i nostri numeri di partenza sono già alti, maggiori di quelli di altri Paesi europei.
COSA SI PUÒ FARE?
Per cercare di porre un parziale argine alla minaccia rappresentata da queste cifre, occorrerebbe diffondere la consapevolezza che una prima frattura da fragilità è un campanello di allarme. Chi l’ha subita presenta un rischio maggiore di rifratturarsi a breve, ed ha pertanto la necessità e il diritto di essere curato per prevenirne altre: i farmaci che abbiamo oggi a disposizione hanno un’efficacia dal 30 al 70% per la prevenzione delle rifratture. Purtroppo ci sono ancora molte persone che non sono prese in esame né curate per la fragilità ossea dopo la prima frattura da fragilità, e quindi non sono curate: meno di un fratturato di femore su 5 riceve una cura per prevenire ulteriori fratture.
Cosa si può fare in concreto per limitare questo aumento delle fratture? Abbiamo chiesto alla professoressa Maria Luisa Brandi Brandi, Ordinario di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Firenze e Presidente della Fondazione FIRMO, come è possibile agire per cercare di trovare una soluzione a questo problema: “La Fondazione FIRMO, che presiedo dalla sua creazione oltre un decennio fa, da sempre indirizza i propri sforzi nel sollecitare l’opinione pubblica e le autorità nei confronti di questo problema e delle possibili soluzioni. – risponde la Professoressa – Le azioni da intraprendere sono molte, ma alcune si possono applicare con più facilità di altre, perché abbiamo gli strumenti già pronti. Per esempio, potremmo cominciare con l’applicare la nota di prescrivibilità per i farmaci antifratturativi (in Italia la nota 79) a tutti i pazienti aventi diritto. In secondo luogo dovremmo istituire percorsi ad hoc entro i cosiddetti “Servizi di Unità di Frattura” detti anche FLS (Fracture Liaison Services). Questi modelli di intervento integrato, che dovrebbero essere adottati capillarmente negli ospedali, permettono di ottimizzare le risorse già esistenti nel nostro Paese (hanno quindi il vantaggio di non richiedere aggravio di spesa per il nostro Sistema Sanitario). In concreto ciò si deeclinerebbe nella creazione dei percorsi di cura e assistenza per le persone fratturate fino dal momento del ricovero, rendendo routinaria la valutazione della salute delle ossa in caso di frattura in pazienti oltre una certa età. Inoltre tali percorsi proseguirebbero anche dopo la dimissione, seguendo e favorendo la prescrizione di una terapia qualora se ne valuti la necessità. In questo modo si potrebbero individuare e avviare rapidamente alla cura molti più pazienti fratturati, limitando drasticamente il numero delle rifratture. Infine – conclude la Professoressa – sarebbe opportuno delineare, attraverso l’elaborazione di un documento, le linee guida da seguire per il paziente con fratture da fragilità.”
Tutto ciò potrà contenere e limitare l’inevitabile aumento dei numeri delle fratture e dei relativi costi per il singolo individuo, per il sistema sanitario e per tutta la società.